ALCESTI di Euripide Regia di Cesare Lievi

La donna che ha scelto la morte pur amando la vita

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Sedili di pietra e il cielo come soffitto; è questo lo scenario del teatro greco di Siracusa, capace di stracciare il velo del tempo che separa le epoche e trascinare lo spettatore moderno indietro nei secoli, al tempo dei miti e delle tragedie.

In occasione del cinquantaduesimo ciclo di rappresentazioni classiche curato dalla fondazione I.N.D.A (Istituto Nazionale del Dramma Antico) che dal 1914 si occupa di infondere nuova vita al dramma antico donandogli la scena di un grande monumento, il teatro di Siracusa ospita, in unione – come vuole la tradizione – ad altre due rappresentazioni, la tragedia di Euripide Alcesti, in scena dal 13 Maggio al 19 giugno 2016.

Una rappresentazione dai contorni difficilmente definibili quella di Alcesti, donna che decide di sacrificare la propria vita in cambio della salvezza del marito Admeto, che sconvolge i canoni classici della tragedia con le sue inserzioni di elementi satireschi e soprattutto con il suo scioglimento caratterizzato da un lieto fine. È un dramma sull’inevitabilità della morte ma contemporaneamente sull’amore incondizionato, viscerale per la vita.

La scenografia è lineare, minimalista, dominata dal colore rosso, il colore del sangue ma anche dei papaveri vermigli che riempiono l’orchestra sulla quale declina la struttura di legno laccato di rosso che stilizza il palazzo di Admeto, marito di Alcesti e re di Fere in Tessaglia. Il papavero, per gli antichi greci simbolo dell’oblio e del sonno, del riposo che porta consolazione, assume qui il valore del sacrificio e della morte.

Il dramma si apre con la processione di un funerale quasi a ricordarci brutalmente, senza filtri, che sarà la morte a impregnare la tragedia cui ci apprestiamo ad assistere. Il feretro nero è preceduto da una banda che suona, le musiche sono di Marcello Panni, e seguito da uomini e donne in abiti della tradizione siciliana.

La processione attraversa l’orchestra con il passo lento che la celebrazione del dolore richiede quando, all’improvviso, dalla parte rialzata della scena scendono correndo due personaggi con abiti tra loro contrastanti: uno è vestito di giallo mentre l’altro indossa un abito nero; i due trascinano un ampio velo nero con il quale si avventano contro i partecipanti della processione che, terrorizzati, provano a fuggire. Per molti di loro ogni tentativo di fuga è vano; vengono avvolti dal telo nero sotto il quale si agitano a lungo, impotenti fino a placarsi e rimanere immobili, solo forme contorte sotto quel manto nero. I due personaggi che hanno trascinato il telo iniziano un dialogo, rivelando i propri ruoli nel prologo che, come a confermare la consapevolezza dell’incombere della morte, è dominato dalla figura di Thanatos, il personaggio in nero, personificazione della morte, dio infernale, in colloquio con Apollo, il personaggio vestito di giallo, protettore di Admeto.

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Apollo, in debito con Admeto per la sua ospitalità, in passato gli aveva concesso di scampare alla morte ma solo se qualcuno avesse spontaneamente deciso di sacrificarsi per lui. L’unica a farsi avanti fu Alcesti, sua moglie amatissima. La tragedia si apre il giorno in cui Alcesti deve morire: Thanatos è giunto alla reggia per riscattare il premio che gli è stato promesso, ossia la la vita di Alcesti. L’orgoglio di chi sa di non poter essere sconfitto nemmeno da un dio risuona nelle parole di Thanatos; anche se Admeto è riuscito a sfuggire alla morte, le leggi del mondo non possono essere infrante: una vita richiede in cambio una vita, la morte non può essere lasciata a mani vuote; nemmeno Apollo può fare nulla per evitarlo. Admeto, scampato agli abissi dell’Ade, soffrirà un destino peggiore della morte stessa: continuare a vivere solo, consapevole che ogni respiro che farà sarà un furto di quello di Alcesti.

L’unico spiraglio di vittoria concesso al dio è di poter prevedere l’arrivo di qualcuno che potrà, eroe che combatte contro le leggi della natura, strappare Alcesti dalle braccia della morte; il preannuncio del lieto fine risuona nelle parole di Apollo.

Nel momento in cui Apollo e Thanatos escono di scena il telo nero che copriva l’orchestra scompare attraverso una botola rivelando gli uomini che vi erano stati avvolti e che costituiranno il coro della tragedia, i servi della casa di Admeto. È un lamento senza consolazione quello del coro, un gemito a più voci denso dell’angoscia di chi non può fare altro che attendere l’inevitabile morte di una persona amata.

Preannunciata dalle parole di un’ancella, la morte di Alcesti, interpretata magistralmente da Galatea Ranzi, avviene in scena, in contrasto con i canoni della tragedia secondo cui eventi tragici quali morti e uccisioni debbano restare rigorosamente nascosti agli occhi dello spettatore. Questa morte non accetta di rimanere celata.

Quella di Alcesti è una scelta dolorosa; lei ama la vita, la ama con tutta l’anima ma non c’è modo di sottrarsi al destino che ha deciso di intraprendere. C’è orgogliosa consapevolezza nel sacrificio di Alcesti, c’è un urlo di vittoria nascosto nell’ultimo gemito prima della morte che la coglierà tra le braccia di Admeto (i cui panni sono indossati da Danilo Nigrelli) dopo uno struggente scambio di battute.

“Solleva il viso. Non lasciare i tuoi figli.”, la implora il marito, disperato, dolorosamente impotente di fronte alla morte, come lo sono tutti gli uomini.
“Non sono io a volerlo” è la perentoria risposta di Alcesti prima di mormorare addio.

Le ultime forze sono impiegate per rivolgere un ultimo sorriso ai figli e al marito, un sorriso pieno di paradossale speranza. Alcesti esala l’ultimo respiro e Admeto cade in ginocchio, coprendosi gli occhi con le mani, desideroso di non poter vedere più nulla dopo quel suo ultimo sorriso.

Alcesti è la tragedia del ribaltamento dei ruoli: la donna è colei che sacrifica la propria vita, l’uomo colui che ne piange la morte.

Admeto è il riflesso distorto della figura della donna tipica dell’epica: impotente, disperato, profondamente innamorato; Alcesti invece è un personaggio profondamente tragico, eco dei personaggi maschili di statura eroica: è la donna a morire per difendere la casa, i figli, la famiglia; l’uomo invece è colui che non può fare altro che assistere al compiersi di quell’inevitabile morte, prigioniero della propria dolorosa impotenza che si compie unicamente nel pianto e nel lamento.

Alcesti muore al posto di Amdeto, sacrifica la sua vita per evitare che quella del marito venga strappata. Ma più che sul tema dell’amore la tragedia insiste sul tema dell’onore, elemento che caratterizza l’eroe dell’epica in contrasto con l’eros, tema tipico invece dell’elegia; Euripide intendeva costruire un personaggio in cui dominasse la struttura eroica e non voleva sbilanciarlo verso l’elegia. Alcesti è una donna che ama il proprio marito ma ha anche la consapevolezza che sacrificarsi per lo sposo è foriero di gloria.

L’eroismo di Alcesti e il suo spirito di sacrificio stridono terribilmente con il viscerale attaccamento alla vita degli altri personaggi che non per questo però possono essere accusati di egoismo o mediocrità. Essi sono solo umani, terribilmente umani e in quanto tali amano la vita e temono la morte. A parlare per tutti loro è il padre di Admeto, Ferete, interpretato da Paolo Graziosi, che in risposta alle stilettate d’odio rivolte contro di lui dal suo stesso figlio, il quale lo accusa di codardia per non essersi offerto di morire per lui, si lascia andare in una pungente invettiva contro Admeto, rinfacciandogli la stessa accusa e prorompendo in una accorata difesa dell’amore per la vita, bene assoluto, non barattabile con nulla.

“Troppo cara è la luce, troppo cara” sono le parole di un padre che, anteponendo all’amore verso un figlio l’attaccamento alla propria vita ormai sfiorita, ha permesso che una donna, una moglie, una madre, scegliesse di intraprendere un destino di morte.

Lo snodo della tragedia è l’arrivo di Eracle, interpretato da Stefano Santospago, al quale, per onorare le leggi sacre dell’ospitalità, Admeto non rivela, celata tra sottintesi e non detti, la vera ragione del proprio lutto e lo accoglie nella propria casa lacerata dal dolore.

Ercole, inconsapevole della vera natura del lutto che grava sulla casa, si ubriaca e gozzoviglia mentre si compie la cerimonia funebre in onore di Alcesti.

Sarà il lamento di un servo di stampo plautino a riscuotere Ercole dal suo torpore; il dialogo tra i due è una parentesi comica che squarcia la patina tragica che grava sulla scena e strappa al pubblico risate inaspettate.

L’eroe dapprima si lascia andare a un rimprovero cinico sull’importanza di godersi le gioie della vita giorno per giorno senza angustiarsi ma, non appena il servo gli rivela, violando gli ordini del padrone, che la vera ragione del lutto che grava sulla casa è la morte di Alcesti, l’eroe pentito decide di compiere la sovraumana impresa di scendere nell’Ade come un nuovo Orfeo e di strappare dalle mani di Thanatos la moglie dell’ospite.

L’ultima parte della tragedia vede rientrare in scena Ercole che trasporta un carretto rosso ricoperto da un telo dello stesso colore; l’eroe toglie il telo rivelando, tra l’agitazione del coro e la reticenza di Admeto, la figura di una donna, pallida ed eterea, immobile e muta.

Admeto, memore della promessa fatta ad Alcesti di non accogliere nessun’altra donna in casa dopo la sua morte, si rifiuta anche solo di rivolgere lo sguardo verso quella donna che Ercole afferma di avere vinto ad una gara.

Saranno le insistenze di Ercole a convincerlo a tendere una mano verso di lei e in quel momento avverrà il riconoscimento: quella donna non è altri che Alcesti, ritornata dall’Ade.

La gioia di Admeto contrasta in modo stridente con la presenza di Alcesti caratterizzata da silenzio e immobilità; due elementi che, secondo le parole di Ercole, svaniranno entro tre giorni, il tempo necessario perché la donna possa scrollarsi di dosso la pesantezza della morte.

Il volto vacuo di Alcesti mentre Admeto la riporta in casa, tenendola per mano, lascia però un velo di amarezza in questo finale lieto, pieno delle grida di giubilo del coro e suscita inevitabili domande: Alcesti, dopo essere stata abbracciata dall’oblio della morte, riuscirà mai a tornare la donna che era stata un tempo?

È una domanda che il silenzio di Alcesti, mentre le porte della casa si chiudono alle sue spalle, lascia senza risposta.

Beatrice Salvioni

Alcesti di Euripide, affidata a Cesare Lievi, con la traduzione di Maria Pia Pattoni, le scene e i costumi di Luigi Perego e le musiche di Marcello Panni, vedrà i ritorni sul palco del Teatro Greco di Galatea Ranziche sarà Alcesti e Stefano Santospago che interpreterà Eracle e il debutto di Danilo Nigrelli che invece vestirà i panni di Admeto. Fonte: http://www.indafondazione.org